Questo ottobre il Museo Diocesano di Brescia ospita una mia opera, La Cura, nata in una delle sale Amigoni e riflessione sulle relazioni post pandemia.

L’installazione è stata inaugurata il 1° ottobre in occasione della notte bianca della cultura e sarà visitabile liberamente per tutto il mese.

La performance creativa, oggetto di un video realizzato da Silvano Richini su musica composta ad hoc dal maestro Claudio Bonometti (registrato con Alessandro Scanzioli), è stata inserita all’interno del progetto diocesano integrato 2022, dedicato al tema “Lo scampato pericolo. Società, arte, musica e spiritualità in uscita dalla pandemia”.

Le fotografie dell’opera sono di Andrea Zampatti.

Questa è la poetica che ho scritto in relazione all’opera e poi mi piacerebbe aggiungere fotografie di chi si è seduto sulla sedia bianca quindi questo post è in aggiornamento 🙂

POETICA:

L’esperienza della pandemia, oltre a ricordarci (temporaneamente) che una parte dell’umanità vive nell’indigenza o in condizione servile, ha reso la morte protagonista della nostra quotidianità.

Si è avvertito il bisogno di condividere il dolore, di partecipare a riti e a cerimonie collettive.

Mi chiedo se il segno che ha lasciato ci abbia reso davvero più consapevoli, se lo “scampato pericolo” sia riuscito a toccarci nel profondo o se abbiamo ricominciato a correre più forte di prima, per recuperare un tempo che si considera perduto, dominati come siamo dalle logiche dell’economia.

L’installazione consta di due pannelli con quattro personaggi – un uomo, due donne, una ragazzina – in dialogo dinamico con la sala attraverso il filo di ferro.

Le figure si muovono nell’ambito della cura intesa come responsabilità verso gli altri e il mondo in cui viviamo. Il proposito sarebbe quello di debellare la cultura dell’indifferenza, dello scontro e delle recriminazioni, riscoprendo i valori della comunità e della solidarietà nella consapevolezza che esista un unico destino dell’umanità, cui tutti partecipiamo.

Eppure i quattro interagiscono titubanti, poiché non è semplice ricostruire una vita sociale fondata su rapporti davvero fraterni. A ben guardare l’uomo che abbraccia e protegge la ragazza ha tre mani, una è protesa verso l’esterno. La donna anziana con lo scialle gli porge dell’uva ma guarda in basso. La bambina con il balsamo lenitivo ha uno sguardo cinico, il suo domani è incerto. Chi siamo? Chi possiamo diventare? Ma il futuro di una volta – ah che rassicurante ossimoro – era davvero migliore?

A colmare la distanza tra i personaggi fluttua un albero onirico quasi spoglio. Le sue radici nascono dalle stesse figure creando una sorta di piano collinare sospeso mentre l’ombra si ramifica tremolante nell’angolo retto, portando lo sguardo su un piano indefinito. A terra un tappeto di foglie bianche, metafora della nostra esistenza terrena.

Al centro della sala una sedia bianca attende lo spettatore, lo invita a fermarsi, a dedicarsi del tempo in contemplazione, a praticare empatia soprattutto laddove le disparità si sono amplificate.

Ecco la cura. Ma c’è ancora tanta strada da fare.